A volte c’è una domanda che torna, come un suono profondo che viene da lontano. Non è un pensiero definito, piuttosto un’inquietudine. Un senso di scollamento tra come siamo e come sentiamo che potremmo essere. È un’esperienza che ci pone su una soglia. Da una parte, la vita di sempre; dall’altra, un ignoto che ci chiama. Spesso, è proprio su questa soglia che ci si chiede per la prima volta cosa sia, davvero, una consulenza psicologica.
Non è una risposta, è uno spazio
Siamo abituate a pensare in termini di causa ed effetto, problema e soluzione. La nostra cultura ci spinge a cercare risposte fuori da noi, da una o un professionista che “risolva” il nostro malessere. Ma la consulenza psicologica non è questo. Non è un luogo dove ricevere risposte preconfezionate o istruzioni per l’uso sulla propria vita.
Un’ipotesi etimologica fa risalire la consulenza al consiglio. Ma come facciamo a sapere se si tratterà del “consiglio giusto”? La risposta consiste nel fatto che la psicologa non dà “consigli” perché non ha risposte: la psicologa “salta” insieme a noi dentro i nostri interrogativi.

La consulenza psicologica è quindi, prima di tutto, uno spazio.
Uno spazio che si crea in due, dove è possibile esplorare le proprie domande senza la fretta di doverle risolvere. Un campo fenomenologico in cui, finalmente, si può smettere di fare e iniziare a sentire. È un invito a sospendere le narrazioni che ci siamo raccontate su noi stesse (“sono fatta così”, “non sarò mai capace”) per aprirci a ciò che emerge nel qui e ora della relazione.
Venire in pace: il rito della consulenza psicologica
Quando entro a casa di qualcuna o qualcuno, non lo faccio portando le mie ragioni. C’è un rito, quello di annusarsi, di lasciare intendere col corpo, prima ancora che con le parole, che “vengo in pace”.
Un percorso psicologico inizia con lo stesso rito. Non si entra nel mondo interiore di un’altra persona con i propri strumenti e le proprie teorie in pugno. Si entra in ascolto. Si crea un’atmosfera di fiducia dove il corpo può smettere di essere in allerta e iniziare a risuonare. In questo spazio protetto, le domande cambiano forma. Le domande che prima ci bloccavano – “chi sono io?”, “sarà per me?”, “posso?” – si fanno più leggere, più vive.
Non si tratta di trovare la “causa” del dolore, ma di abitarlo insieme, di dargli un nome e un posto nel mondo, riconoscendolo non come un difetto individuale, ma come parte di un’esperienza umana universale.
Dal “cosa ho che non va?” al “t’immagini se…?”
Il vero cambiamento, spesso, non sta nel trovare una risposta, ma nel porsi una domanda diversa. La consulenza psicologica è un dispositivo che facilita questa trasformazione. È un processo di autorizzazione: autorizzarsi a sentire, a desiderare, a esistere nella propria parzialità e complessità.
È il passaggio da una posizione di impotenza a una di possibilità. È smettere di chiedersi cosa non funziona in noi e iniziare a immaginare: “e se provassimo così?”, “viaggiamo insieme in questa direzione?”, “t’immagini se questa ferita fosse in realtà una soglia?”.
Siamo sempre state intere, complete. A volte ce ne dimentichiamo. Un percorso di supporto psicologico è questo: un modo per ricordarselo, insieme, in un particolare momento della propria vita.
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